domenica 20 gennaio 2013

In una notte d'inverno



Che fatica.
Scanso una ciocca ribelle di capelli, ho la fronte madida di sudore, nonostante il freddo.
È notte, è inverno.
Ho sedici anni.
Sono incinta.

La mia mano scende istintiva, c'è poco da nascondere, anche con vestiti larghi.
È lì, è lì da nove mesi ormai.
È lì da quando non era che una notizia, un concetto senza alcun riscontro fisico.
È lì da quando ha iniziato a farsi strada dentro di me, creando la sua culla, il suo rifugio.
È lì da quando ho sentito la mia pancia gonfiarsi per fargli posto, attutire dolcemente i suoi movimenti, i suoi primi gesti in questo mondo, un'indole caparbia, indomita.
Un po' come sua mamma.
Mamma. Una parola così strana, riferita a me.
A me che non me lo aspettavo, a me che non avrei dovuto, non ora, non così.
E l'ho scontato, altroché.
L'universo intero si sta impegnando a farmi scontare questa pena, a farmi sentire abbandonata, a insinuare perfino in me il dubbio che non vada bene, che non ne valga la pena.
Che sia sbagliato.
Il biasimo silenzioso degli uomini, il disprezzo esplicito delle donne contro una ragazza senza marito che aspetta un figlio da chissà chi.
La mancanza di pietà nel bussare a una porta e sentirtela sbattere in faccia, dopo uno sguardo a te e al tuo ospite indesiderato.
Ho sedici anni, un bambino e un destino più grande di me.

La notte è fredda, il sudore scivola sulla mia pelle come brina su fili d'erba.
Mi sfugge un gemito, iniziano le fitte.
Ma va bene, è normale. Ogni tanto capita.
Cerco di respirare.
Dentro, fuori.
Dentro, fuori.
Sta' calma. Respira. Calma.
Ma stavolta è diverso. Stavolta le fitte non smettono, ma anzi, tornano regolarmente, a ondate, più forti ogni volta.
Il gemito diventa urlo, mi accascio, le mani al ventre che sembra voglia aprirmi in due.
Sta... sta arrivando.
Il bambino.
Non c'è più tempo.

Sento due braccia cingermi le spalle.
È lui.
Il mio uomo.
È più grande di me, eppure è l'unico che abbia capito, che abbia accettato.
Che mi abbia voluta accanto, anche se porto in grembo il figlio di un altro.
“Dobbiamo fermarci”.
No!
“Non... non può nascere qui” ansimo, ripiegata su me stessa.
“Non puoi neanche proseguire” mi risponde lui, risoluto.
Si china accanto a me, gli prendo il viso tra le mani, sentendo la sua barba sotto le dita, appoggio la mia fronte caldissima alla sua, più fresca.
Un'altra fitta, altre grida.
“D'accordo”.
Mi solleva, io chiudo gli occhi, stringo i pugni per resistere al dolore.
Dentro, fuori.
Respira.
Non so dove andremo. Siamo in aperta campagna, troppo avanti dall'ultimo paese, troppo indietro per il successivo.
È notte, è inverno.
E sto per partorire.

Mi sento adagiare su qualcosa di morbido, le parole del mio uomo un sussurro indistinto.
Mia mamma diceva sempre che ogni donna è sola, quando partorisce, anche se circondata da persone.
Qui non ci sono persone.
Eppure non mi sento sola.
Alzo gli occhi al cielo, alle poche stelle che si intravedono attraverso il soffitto di paglia del nostro rifugio.
Non sono sola.
Respira.
Dentro, fuori.
Dolore.
Respira.
Dolore.
Dentro, fuori.
Fuori.
Fuori...

L'ho appena scoperto, il suono più bello del mondo.
Un pianto.
Un pianto che racchiude paura, scoperta, passaggio e una miriade di sensazioni... un pianto che racchiude la vita.
La sua, la mia.
Mio figlio.
Me lo porto al petto, lo avvolgo nei vestiti, nel mio affetto, nel mio cuore.
Mio figlio.
Yehoshùa .



giovedì 17 gennaio 2013

Lola


Lola, Lola.
Povera Lola.
Perché te ne stai lì, in un angolino?
Perché piangi, povera piccola?
È colpa loro? Sono stati quei bambini laggiù a farti del male?
Guardali, come se la ridono. Ti additano sghignazzando, danno di gomito a quello accanto, in quello che ormai è un ritornello famoso, nel cortile della scuola elementare.
Lola è pazza.
Ma tu non sei pazza, vero, Lola?
Sei solo timida e un po' sola. Vorresti essere accettata, vorresti che ti volessero bene.
Come Anna, la bambina con le trecce bionde. Tutti vogliono bene ad Anna. Ogni volta c'è la fila per farle da compagna di banco, per starle vicino in autobus.
Cosa ha Anna che tu non hai, Lola?
È vero, non hai i capelli biondi. E la mamma non ti cucina i biscotti tutti i giorni. Hai provato a offrire i tuoi biscotti fatti di fango, ma te li hanno buttati a terra. Li hanno rotti tutti, li hanno calpestati.
Vaglielo a dire, che tu la tua mamma non la puoi vedere. Sono due anni, che non la puoi vedere.
Povera, povera Lola.
E ora piangi, piangi perché ti prendono in giro.
Lola è pazza.
Ma loro, che ne sanno loro? Che ne sanno che quella è la quarta scuola che cambi in sei mesi? Che ne sanno che ogni volta hai dovuto ricominciare da zero?
E ogni volta ti ritrovi allo stesso punto.
Un angolo in cui piangi silenziosa. Il naso che ti cola, i pugni sugli occhi, a tamponare fiotti di lacrime.
Ma sai cosa faremo, Lola?
Noi gliela faremo pagare.
Dai, alzati. Sgrullati la terra del cortile dal grembiule, ecco, così. In piedi, a testa alta.
Gliela faremo pagare, Lola, te lo prometto.
Ecco, brava, sorridi. Dai retta a me, che sono il tuo unico amico.
Ti prendono in giro solo perché mi parli, perché giochi con me.
Sono cattivi, i bambini.
E le persone cattive vanno punite. Devono pagare per le loro ingiustizie. E noi gliela faremo pagare, insieme.
Avviciniamoci, Lola.
Li vedi? Stanno ancora ridendo. Fanno i grossi solo perché sono in terza, si spalleggiano a vicenda.
Oh, arriva Lola la pazza!
E ora che altro si inventerà?
Ridono, ridono, Lola. Ma non sanno che rideranno ancora per poco.
Siamo sempre più vicini, sempre più vicini.
E mano a mano vedi, non ridono più di te. Di noi.
Guarda come si zittiscono, come cambia il loro sguardo.
Guarda come diventano pallidi, come iniziano a balbettare.
E ora godiamoci lo spettacolo, Lola.
È stato un bello spettacolo anche quella sera di due anni fa.
Ero tanto amico della mamma, lo sai? Il suo unico amico.
E tuo papà era stato davvero, davvero cattivo.
Ma ora guarda, non è fantastico?
Non ti ribolle il sangue di felicità a sentire la loro paura, il loro terrore?
Non ti viene da sorridere mentre se la fanno nei pantaloni, mentre cercano di scappare, ma no, ormai è tardi, ormai hanno riso, ci hanno preso in giro, ci hanno portato dietro la scuola, dove nessuno può vedere, nessuno può sentire. E infatti nessuno ci vede o ci sente.
Nessuno vede le loro facce sconvolte, nessuno sente le loro grida disperate.
Solo io e te, Lola.
Solo noi, noi e loro.
Noi contro di loro.
Ecco, senti che brividi di piacere nelle dita mentre afferri quei loro piccoli, sudici colli e zac, basta un movimento, un movimento così piccolo, Lola, per farli smettere di ridere.
Non rideranno più, Lola. Non di noi.
Nessuno riderà più.
Nessuno.


mercoledì 16 gennaio 2013

L'ultima ora del mondo





Lampi vermigli, in una notte che sembra sanguinare dal cielo.
L'aria immobile pulsa di energia contenuta ancora per poco.
Il fumo esce dal terreno come il silenzioso respiro di qualche terribile bestia in agguato.
Il silenzio, totale e terribile.

Mi stringo le ginocchia al petto. 
Sento attorno a me il calore di altri corpi umani, tutti stretti in un impotente attesa.
Attendiamo, nell'istante di stasi che precede la fine.
Attendiamo, mentre speranza e orrore si attorcigliano alle nostre anime in spire letali.

Ogni battito pulsa nelle orecchie, gridando la sua unicità.
Ogni stilla di sangue nelle vene sa di essere al suo ultimo giro.

E poi inizia.
Parte con un ciottolo, un lieve movimento, poco più che un tremolio. 
E poi cresce, si allarga, inesorabile come una marea, inarrestabile come una valanga. La Terra intera prende a tremare, a contorcersi, squassata da una forza che la soverchia, la sconvolge, la devasta.
Massi e pietre ci crollano attorno, le montagne si sgretolano in schegge di granito.

Trema la Terra, trema la piuma di vita rinchiusa nei nostri fragili cuori.
E presto il Cielo risponde all'invito.

Dapprima, un fischio lontano, come un ronzio.
Una tensione leve, ma carica di potere, di elettricità statica.
Un brivido sulla pelle, sotto i capelli.
Vorremmo guardarci, ma la paura del possibile ci tiene tutti bloccati, stretti in un cieco abbraccio.

E poi l'aria si tende, ribolle, si gonfia: l'energia si coagula in un unico flusso, 
un vento rovente che cresce di minuto in minuto, finché il ronzio non è un ululato,
 la tensione esplode in tempesta, il tumulto annienta il labile valico dell'orizzonte.
Non esiste più Cielo né Terra, ma un'unica entità che freme, si dibatte, 
si espande e contrae, una belva che azzanna prima di morire.
Nel mezzo, un manipolo di esseri umani.
Pallidi ammassi di cellule e nervi, di paure e di incubi.

Occhi chiusi per non vedere, orecchie tappate per non sentire. Eppure il tatto ci avvisa quando uno di noi viene strappato dal gruppo, fagocitato dalla furia, disperso nell'apocalisse.

Ci stringiamo più stretti, a chiudere il buco.
Ma non si può eludere la morte, se morte è il grido di tutto ciò che ti circonda.

Il ruggito nell'aria diventa assordante, la notte vomita una pioggia acuminata come schegge di vetro,
 ferendo il buio di lampi cremisi. Scariche di pura energia grandinano dal cielo livido,
 il fuoco divampa nell'impatto col suolo.
È il convergere di tutti gli elementi.
È il tutto prima del nulla.
È la fine.

Esalo un sussurro, un'impercettibile melodia. Inudibile a chiunque, anche ai pochi che mi ancora mi stanno vicino, si disperde prima ancora di varcare la soglia delle labbra. 
Morta eppure mai nata.

Il boato cresce, si gonfia: di colpo tutto è rumore. 
Tuoni, stridori, esplosioni, la materia si plasma in singola percezione uditiva assordante, totalizzante. 
Buio, luce, pioggia, vento tutto si contrae in un'unica convulsa pulsazione.
Il mondo piange la sua morte in un unico grido.
Un lampo, un'esplosione primordiale.
Poi nulla esiste più.



Nel nulla del poi, un solo rumore.
Un flebile canto, un'antica ninna-nanna.
E il primo vagito di un neonato.

sabato 12 gennaio 2013

PROLOGO


Pensieri ruvidi sul morbido cuscino della stanza 402.
Antoine Delamont guarda il soffitto come un uomo che guarda alla fine della propria vita. E dopotutto, non è proprio così, la sua vita?
Incolore, con una crepa qua e là e qualche ragnetto negli angoli.
Le crepe le conosce tutte.
Solleva un dito, indicandole una ad una.
Quella là, profonda e che praticamente taglia a metà il soffitto, è di sicuro Bernardette.
La sua eterna fidanzata, un concentrato di boccoli e capricci che l'ha fatto penare per anni con le sue richieste. Perché non si vestiva così, perché non guadagnava cosà, perché non la portava mai in vacanza, perché non le aveva ancora chiesto di sposarsi. Una vocetta petulante per una ragazza che avrebbe potuto (e voluto) avere molto di più, ma chissà perché si era incaponita a prendere lui, un povero Cristo senza troppe qualità, e a smussarlo a colpi di martello per trasformarlo nel suo uomo ideale.
Bernardette, capelli lunghi e gonnellina corta, da perenne studentessa. Che gli prendeva la mano per camminare e gliela lasciava per indicargli ogni vetrina e il suo adorabile contenuto.
Lei sì che ha tagliato a metà la sua vita.
Non ci credeva proprio, quando finalmente si è decisa a lasciarlo. Lasciarlo andare, lasciarlo in pace.
“Ho capito che tu non cambierai mai per me” gli ha detto, lisciandosi una ciocca dei suoi lunghi capelli e guardandolo negli occhi. Lui invece le guardava i piedi. Portava le ballerine, ma come accidenti si possono mettere scarpe simili con un freddo barbino e neve in arrivo? E invece portava le ballerine, perché Bernardette non è tipa da tacchi, lei era una che corre, che non perde tempo.
E di tempo, con lui, ne aveva perso fin troppo.
“Hai ragione” gli ha risposto Antoine semplicemente, e così è finita.
Lei ha annuito, pratica come sempre, e senza cerimonie se n'è andata. Senza dir nulla. Neanche un bacio sulla guancia, un augurio per il futuro, un “mi dispiace” anche per finta.
Questa era Bernardette.
Ce ne sono altre, di crepe, però. Più piccole, ma sempre pronte a minare il soffitto della sua esistenza.
Il suo lavoro precario che sì, no, boh, forse in futuro si aprirà qualche opportunità. Ma sei comunque un membro importante dell'azienda. E così eccolo a farsi due ore di treno a tratta, quattro in tutto, andata e ritorno per compilare scartoffie, ascoltare reclami, mandar via qualche insistente. Bernardette diceva che lo hanno scelto per la sua passività. Perché dopo un po' che discuti con uno senza spina dorsale, passa la voglia anche a te.
Poi beh, c'è una mamma delusa che vorrebbe avere già un'orda di nipotini ad affollare il suo salotto, gustare il suo viande au café de Paris e prestarsi alla sua gioviale tirannia domestica.
L'ombra di un padre che anche dalla tomba continua a far pesare la sua superiorità. Antoine lo ha a malapena conosciuto eppure è il suo costante spettro, il modello ideale con cui viene costantemente confrontato.
Eh, son tante le crepe, a contarle bene.
Ma non sono le crepe a preoccupare Antoine Delamont, stanza 402, Hotel Poire Verte. “La Pera Verde”, ma che accidenti di nome è, per un hotel?
No, le crepe sarebbero le benvenute, con il loro lento stillicidio di intonaco vitale.
Il problema sono proprio loro, i ragnetti.
Perché uno bello grosso è appena riemerso dal suo oscuro angoletto per rivendicare i propri diritti.

lunedì 7 gennaio 2013

Neve Rossa - Finale

Udite udite, habemus finalis!
Neologismi latini a parte, signori, sono lieta di comunicarvi che la sottoscritta è rientrata nella terzina (diventata quartina) finale del concorso "Neve Rossa" per minimEE! [riferimenti precedenti sul blog: http://oggimileggo.blogspot.it/2012/12/neve-rossa.html ]
Ora la preferenza da dare è sempre una, e ci tengo a ribadire che non chiedo voti per me, ma per il racconto che davvero ritenete più meritorio! E vi assicuro che ho dei degni concorrenti... :)

Grazie ancora, un abbraccio e buon 2013