mercoledì 23 ottobre 2013

L'ultimo

LEGGI DELLA ROBOTICA

I - Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.



II - Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.

III - Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. »



E se la prima legge non esistesse?



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Passi.
Sempre più pesanti, sempre più vicini.
Mi stanno addosso.
Continuo a correre, in questo dannato cunicolo che sembra srotolarsi fino al centro della terra, e che invece altro non è che uno dei tortuosi tentacoli della Piovra.
La Piovra.
Sembrava una così grande idea, all'inizio. Un complesso di gallerie sotterranee in cui riversare tutto ciò che al Sopra risultasse scomodo.
Rifiuti.
Sostanze tossiche.
Specie viventi.
Una creaturina zannuta ringhia al mio passaggio, rifugiandosi in un anfratto, dalle acque di scolo si alza una nebbia verdastra, popolata di insetti luminescenti.
Sono molte le aberrazioni sorte in questo mondo buio, senza regole e senza Dio.
Ma non c'è tempo per queste riflessioni, sento i loro passi, l'eco delle loro armi metalliche.
Veloci, letali. Li ho visti in azione, ne sono sfuggito per miracolo.
Eppure questa volta aspettano a sparare. Non hanno alcuna fretta.
Non ora che governano il mondo.
Non ora che hanno eliminato dal Sopra ogni altra specie vivente.
Mi paralizzo nel ricordo, un attimo, è solo un attimo, ma tanto basta per rovinare a terra, per sentire i loro passi più vicini.
Non c'è tempo neanche per le distrazioni.
Riprendo a correre, eppure il mio pensiero è fermo lì.
A quel dannato giorno.



Una cucina luminosa, risate attorno a un tavolo.
E poi, un paio di occhi freddi, l'arma che si alza.
Indifferente a ogni richiamo, a ogni preghiera.
A ogni pietà.



Stringo i denti, affretto il passo.
C'è stato un tempo in cui Androidi e Umani vivevano pacificamente insieme, costruendo le basi per un mondo migliore.
Un mondo di pace, di armonia.
E poi, la prima vittima.
Eliminata nella casa che avevano condiviso fino ad allora, da quelle stesse creature che gli erano sempre state compagne.
Quante volte ci siamo chiesti cosa fosse cambiato, perché di colpo fossimo diventati nemici.
Eppure non ebbero pietà. Mai, e con nessuno.
Crudele, sistematico, iniziò uno sterminio che dilagò presto in tutto il mondo, dando origine alla più grande guerra di questa Era.
Provammo a difenderci, all'inizio. A opporci al loro dominio. Ma erano troppo, troppo potenti.
Non ci restò che scappare.
Nasconderci.
Ci rifugiammo in massa nell'unico posto che ancora sfuggiva al loro controllo, in cui ancora potevamo sperare di ricostruire una civiltà, una vita, per quanto oscura e circoscritta.
Il Sotto.
Nei tentacoli della Piovra, giorno dopo giorno, costruimmo una resistenza armata, soldati come me, che con ogni mezzo avrebbero preservato il piccolo seme di rinascita sorto in quel luogo fetido.
Ma abbiamo fallito.
La battaglia che abbiamo ingaggiato era troppo grande, per le nostre forze.
Uno dopo l'altro, i miei compagni sono caduti sotto le loro armi, uccisi o catturati per esperimenti raccapriccianti.
Sono rimasto solo.
L'ultimo.
Continuo a scappare, eppure sempre più mi rendo conto che la mia è una fuga inutile.
Correre, nascondersi, condurre un'esistenza braccato in cunicoli oscuri... perché?
Che senso ha la vita, se non hai con chi condividerla?
Forse dovrei solo fermarmi.
Arrendermi.
Forse dovrei...
Il destino risponde ai miei dubbi, una luce rossastra lampeggia in fondo al tunnel.
La mia corsa sfuma in pochi passi, portati avanti per pura inerzia.
Davanti a me, lo Smaltitore.
Il globo incandescente in cui sboccano tutti i cunicoli, il sole del Sotto, il centro della Piovra.
Il fuoco dove bruciano tutti gli abomini di quaggiù.
E forse, forse io sono uno di essi.
Aspetto immobile, mentre i passi alle mie spalle si fanno più vicini, le armi scattano, alzandosi contro le mie spalle.
Ma non sparano.
Non ne hanno bisogno.
Uno di loro avanza, il comandante forse, e si limita a una parola.
Buttati”.
Ed io non posso che obbedire.
Mi perdo nei mille baluginii di questo nucleo infuocato, rapito dal suo fascino mortale, mentre mi tuffo verso di esso.
Il calore arroventa la mia pelle sintetica, in qualche istante non sarò che un ammasso di metallo fuso, e poi neanche quello.
Ma non ho paura.
Perché c'è più vita in questo mio corpo artificiale che in tutti i loro cuori che battono, che ci hanno sterminato solo per aver visto in noi una minaccia.

E si ricorderanno di me.

Perché io sono l'ultimo.

L'ultimo dei Robot.





mercoledì 16 ottobre 2013

La terra dei cachi torna a colpire

Italia sì, Italia no. Italia forse. Italia - e italiani - in ogni caso sempre pronti a dire la propria, su tutto e su tutti. Dopo il tormentone del caso Barilla, che ha diviso in due accanite fazioni il mondo social, un nuovo caso torna a far vestire al popolo del Bel Paese le sue amate vesti di opinionista. Questa volta, poi, gli ingredienti per imbastire il più gustoso dei talk-show ci sono tutti: una notizia falsa, uno pseudonimo neanche tanto misterioso, una condanna alla reclusione, infine nientemeno che la grazia di re Giorgio. E, soprattutto, una parola di cui riempirsi la bocca, quasi sempre a sproposito: giustizia. Ora, è ormai assodato che questo vocabolo nella nostra bella penisola ha finito per perdere ogni sua originaria connotazione: quello che forse, però, ai più sfugge, è che per ottenere questo processo di svilimento lessicale la via più rapida e sicura è l'abuso. Come il tanto ostentato amore delle tredicenni cresciute a pane e Moccia ha vestito questo termine delle sue tinte più insulse, così la parola giustizia sulla bocca di chi meno avrebbe avuto diritto di pronunciarla ha perso ogni parvenza di credibilità. Ecco quindi che ci ritroviamo, nel bel mezzo di una delle più profonde crisi politico-economico del Paese, a disquisire sul fatto che il direttore di un giornale debba scontare una pena detentiva oppure pecuniaria per “omesso controllo”, quando il più nutrito manipolo di condannati, indagati o misteriosamente prosciolti occupa bel bello le comode sedie del nostro parlamento. Pena che oltretutto – ci piace dirlo – si rifà a un codice penale redatto nientemeno che in pieno ventennio fascista, di certo non famoso per la sua politica in termini di libertà d'espressione. Ma al di là del singolo caso, è interessante osservare come l'italiano medio, che lascia silenziosamente calpestare i propri diritti un trilione circa di volte al giorno, sia subito pronto – ovviamente senza alzarsi dalla poltrona – ad impugnare la parola “giustizia” per scagliarsi contro l'ultimo processo-reality che i media gli hanno propinato tra un Grande Fratello e l'altro. E quasi che la sorte di Sallusti fosse appesa al televoto – grazia sì, grazia no, chiama il numero in sovrimpressione – le chiacchiere da bar abbandonano i soliti temi calcistici per altri in cui di certo si ha meno esperienza, e da aspiranti CT della nazionale ci si improvvisa magistrati. Poco importa che i nostri governanti abbiano silenziosamente scontato a diverse Società di slot machine un totale di 96 miliardi di euro (l'equivalente di cinque manovre economiche), poco importa che lo scandalo della MPS si sia ridotto in pochi mesi a un peccatuccio veniale di cui in pochi si ricordano ancora. L'importante è riempirsi la bocca della parola giustizia nei casi mediatici del giorno, dando il nostro pollice alto o verso ai Misseri, Franzoni, Sallusti di turno, trasformando ogni processo in uno show in cui l'ultima parola resta comunque alla giuria
popolare. Perché, cantava sempre Elio, “Italia no, Italia sì. Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così”. Perché la libertà è una cosa seria, e nessuno meglio del popolo italiano sa usarla a sproposito.