giovedì 4 aprile 2013

La donna di carta - capitolo 1

1. INCUBO

Eccoti.
Nei miei sogni, ancora una volta.
Come una dea o uno spettro.
E forse sei entrambi, una doppia maschera di poesia e orrore, di ispirazione e raccapriccio.
Una sadica musa che si nutre d’inchiostro e di sangue, che anela all’eterno riposo delle mie pagine.
Un abominevole compromesso a cui né arte né penna possono piegarsi senza essere dannate in eterno.
Di giorno è più facile. È facile astenersi dallo scrittoio, da quelle pagine che ti reclamano e ti invocano. È facile schivare gli attacchi della memoria, sfuggire alle sue dita sottili che vorrebbero allacciarsi attorno alla mia mente, abbracciarla nel loro gelido calore.
Ma la notte… la notte la porta dell’inconscio si socchiude, e quelle stesse dita si insinuano nello spiraglio, strisciano dentro me sotto forma di languidi pensieri.
Ed ecco, sono di nuovo lì, di nuovo perso nella rete profumata dei tuoi capelli corvini, nella trappola scarlatta delle tue labbra schiuse sulle mie, nel candore di perla del tuo collo reclinato all’indietro in una risata. Ti accarezzo il viso, ti faccio ballare, stringo al petto le tue mani giunte alle mie in un’eterna unione.
Uno, due, tre, giravolta…
Mi sorridi, e lentamente il tuo sorriso inizia a disgregarsi, la pelle avvizzisce attorno ai denti, gli occhi affondando in un viso sempre più scheletrico. L’inerzia della danza soffia via i tuoi ultimi resti mortali, ed è una creatura senza più corpo né anima quella che danza insieme a me in un macabro valzer.
Sorridi ancora, sorride quella tetra allegoria di te, fatta di ossa, polvere e dolore: e la tenerezza è intrisa d’orrore, e l’orrore di tenerezza, perché sei tu, nonostante tutto.
Nonostante tutto, tu.
Mi sveglio sudato, con l’umida scia della tua mano bagnata di affetto e di vendetta ancora sulle guance.
Il letto, un groviglio di lenzuola annodate da sogni troppo contorti per dispiegarsi alle vele dell’alba.
Mi sollevo lentamente, scrollandomi di dosso frammenti di sensazioni e di ricordo.
Cerco nella routine del mattino il conforto dell’abitudine, ma non c’è abitudine dove ci sei tu, non c’è mai stata.
Lo specchio del bagno mi restituisce l’immagine di un uomo più vecchio e più triste di quello che si è coricato la sera prima. Sembra che ogni secondo di questa notte abbia inciso la sua personale tacca sul mio viso, come un carcerato sulle pareti della cella.
E dopotutto, stanotte non sono stato forse tuo prigioniero?
Incatenato al tuo ricordo come un cane al palo, destinato a imputridire attorno ad esso.
Affacciato alle verdi finestre dei tuoi occhi, tra le sbarre delle ciglia ho pianto lacrime di mancata amnistia.
Non esiste fine alla prigionia che inizia con la morte.
Come un ergastolano, cammino in due metri quadri di vita, accompagnato dal suono di passi chiusi su stessi, senza speranza di assoluzione.
Sei la mia cella, e la chiave l’hai portata via con te.
Vorrei non guardare, ma i miei occhi stanchi sembrano agire contro la mia volontà.
Si volgono con la rassegnazione di chi ormai ha rinunciato a sperare.
E come ogni mattina, sono là.
Candide come vergini sacrificali a un dio barbaro, deflorate da cicatrici d’inchiostro.
Pagine e pagine che non so quando ho scritto.
E che, come sempre, parlano di te.
Della tua ferale bellezza.
Del nostro amore dannato.
Di un patto che non conosce confini.
E di una promessa.
La promessa che sto per raggiungerti.


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