lunedì 29 aprile 2013

La donna di carta - capitolo 3

[Hai perso il capitolo 1 e 2? Li trovi qui (1) e qui (2).]

3. TUO, PER L'ETERNITÀ


Svegliarsi è un po’ come venire al mondo, mi dicesti una volta.
E io come un neonato emergo dall’incoscienza avvolto in lacrime e paura.
Ma non c’è nessuna madre a consolare il mio pianto.
Nessuna donna a custodirmi nello scrigno delle sue braccia.
Perché tu, tu…
Singhiozzo la mia disperazione, artigliando quest’umida sabbia che forse ti ha accolta per sempre, mentre la mia vista annacqua i contorni sfumati della sera.
Tu non ci sei.
Non più.
Nessuna speranza.
Nessuna illusione.
Solo dolore.
Dolore…
Esplodo in schegge di urla e sangue, affondo le unghie nella sabbia, voglio morire, fammi morire, portami con te, non c’è vita senza speranza, non c’è vita senza di te…
E poi mi fermo.
Le mie dita sospese su solchi già scavati.
In bilico sull’orlo dell’abisso, apro gli occhi a guardare ciò che la mia mente non osa raffigurarsi, ma che, come un cieco, riconosco al tatto.
E sono lì.
Non c’è carta né inchiostro, stavolta, ma anche oggi nel sonno hai riscosso il tuo tributo.
Il mio sguardo si infrange su parole che non ho mai vergato su questa sabbia, e che pure riflettono la mia calligrafia.
Ma non sono gli sfoghi di un animo tormentato dalla tua mancanza, che anela al ricongiungimento.
Non stavolta.
Poche semplici parole.
Un messaggio che non lascia scampo.
Sauve-moi, mon petit écrivain… sauve-moi…
Salvami.
Salvami.
Mon petite écrivain.
Annego nell’abisso di queste parole, aldilà del tempo e dello spazio, finché l’alta marea non le sommerge nella sua languida carezza, lasciandomi con l’unica prova del ricordo.
È notte, ormai.
E il vento, un’amara melodia.
***
Mon petit écrivain…
Sorridevi, dal candore del letto.
Il lume della scrivania gettava liquide ombre sul tuo corpo d’avorio, strappando poche morbide linee a un’oscurità carica di promesse.
Un’opera d’arte, nella cornice delle lenzuola.
Mon petit écrivain… sussurrasti ancora, e già sapevi di salvezza e dannazione. Il verde dei tuoi occhi, la più soave e pericolosa delle sirene.
Mi avvicinai, la penna ancora tra le dita, i fogli stropicciati sparsi a terra come farfalle malate. La tua presenza saturava ogni mio pensiero, avvelenava già allora la mia arte.
Dimmi, amor mio…
Il tuo sguardo osservò affascinato la penna, la sua ruvida punta venata d’inchiostro. Scriverai di me?
Risi nella tiepida penombra di quell’abbaino. Non posso. Con quella stessa penna accarezzai il tuo viso, corrucciato per quel rifiuto. Perché è già così: sei nella mia testa a ogni parola che scrivo, a ogni goccia d’inchiostro che verso su quello scrittoio. La mia arte già ti appartiene. Io ti appartengo.
Sorridesti, accompagnando con le tue dita quella carezza fino a togliermi delicatamente la penna dalle mani.
Allora scriverò io di te. Su di te.
La penna iniziò a graffiare sul mio petto nudo.
Sei mio, mon petite écrivain… leggesti in un sussurro, suggellando quelle parole con un bacio Mio per l’eternità.
***
Salvarti.
Come posso salvarti, se mi sono perso con te?
Se la luce dei miei passi si è spenta assieme ai tuoi occhi verdi?
Hai cercato salvezza in chi non può che riflettere la tua stessa dannazione.
Non posso salvarti, amore mio.
Lo vorrei più di qualunque altra cosa, più della mia stessa vita.
Ma semplicemente… non posso. Non posso donarti qualcosa che non ho. Qualcosa che ho perso quella mattina di sette anni fa, quando qualcuno bussò alla mia porta e disse “Non c’è più”.
La notte è un buio mantello venato di nuvole, sorretto da un vento che sa di cambiamento, di rinascita.
Come note di un pianista, gocce di pioggia iniziano a cadere dal cielo, perforando ogni dubbio, lavando via ogni indecisione.
Ora lo so.
Non posso salvarti, lo sai.
Inizio a camminare nelle gelide acque del lago.
Non posso salvarti, ma posso raggiungerti.
L’acqua sta per sommergermi completamente.
Prendo un respiro, l’ultimo.
Eccomi, amor mio. Sto arrivando.
Tuo, per l’eternità.
E poi, una voce.
“Aspetta”.
Chi ha parlato?
- La bimba con gli occhi neri
- Lei, la donna di carta.
- Una figura del passato, legata alla sua scomparsa.

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venerdì 12 aprile 2013

La donna di carta - capitolo 2


[Hai perso il capitolo 1? Lo trovi qui]
2. Alouette
Fuoco.
I miei occhi annegano nel doloroso fascino di queste fiamme.
Lo senti?
Senti il calore avvolgerti nel suo rovente abbraccio? Senti le lingue di fuoco strisciarti addosso in una seduzione letale, penetrarti come il più ardente e spietato degli amanti? Senti il bruciore esploderti attorno, consumare la carne, polverizzare le tue fragili ossa nel più crudele e sublime amplesso della tua vita?
Io sì.
Ogni mattina, nel fuoco che divora quelle pagine maledette, vengo divorato anch’io.
Tra le fiamme, crepito e mi consumo.
Tra le ceneri, languisco in agonia.
Non c’è scampo alla crudele simbiosi con quegli scritti fantasma: finché vivrò, loro vivranno. Distruggendoli, distruggo me stesso.
Fiamma dopo fiamma, cenere dopo cenere.
Come Prometeo incatenato alla roccia, ogni giorno rinnovo il mio supplizio.
E tu, dea irremovibile, osservi sorridendo.
Cammino e mi sei addosso, un umido mantello di rimpianti e di ricordi.
Ombra tra le ombre, in questa pallida vita.
I miei passi ricalcano sentieri già battuti, orme impastate di polvere e lacrime.
Sette anni.
Sette inverni, e primavere, e autunni, ed estati: migliaia di giorni e di passi incisi su questa strada e sulla mia pelle.
Mi vedi?
Mi osservi mentre ripercorro con fede di supplice i tuoi ultimi istanti, mentre inseguo la labile scia del tuo passaggio?
Io sì.
Ti vedo a ogni passo. A ogni filo d’erba che forse ha conosciuto i tuoi piedi, a ogni pianta che ha attirato il tuo sguardo, a ogni raggio di sole che si è guadagnato il tuo sorriso.
Ti vedo, eppure non ci sei.
Non ci sei più.
Scomparsa come le pagine sul mio scrittoio.
Soffiata via in una nuvola di cenere, eppure destinata a bruciare per sempre.
Eccomi.
Ancora una volta, sono qui.
La tua culla.
La tua tomba.
L’acqua riluce tetra sotto un cielo livido di nuvole.
Amavi questo posto.
Passavi ore sulle cupe sponde del lago, fissandone la superficie con aria di sfida.
Trovarono le tue scarpe, quel giorno. Dissero che dovevi aver cercato la morte in quelle gelide acque, che il tuo corpo non sarebbe più riemerso.
Nessun sepolcro per la tua anima dannata: un’urna d’acqua ti avrebbe custodita, per sempre.
Non gli credetti, allora. Non gli credo adesso.
Ogni giorno vengo qui ad aspettarti.
Ogni giorno attendo il tuo ritorno.
Ma oggi qualcosa è diverso.
Il grigio livore del cielo sembra quasi pulsare, il fischio del vento diventa richiamo, le chiome degli alberi crepitano di sussurri e segreti.
Un torpore sottile mi annebbia la vista, offusca la mente e in un istante mi ritrovo disteso ai margini della realtà.
Stai arrivando.
E di colpo il sonno mi assale.
Buio.
Silenzio.
Freddo.
E poi una debole nenia arriva distorta al mio orecchio.
Alouette, gentille alouette, je te plumerai…
Un mondo liquido e oscuro prende forma lungo la traiettoria della melodia, rischiarato dalle sue flebili onde sonore.
Il fondo del lago.
Appeso a quella voce infantile, avanzo.
Je te plumerai la tête…
Ed ecco, la vedo.
Una bimba dagli occhi neri che guarda fisso a terra .
E sotto quelle note, il fondo melmoso inizia a smuoversi, un brivido lo scuote mentre il profilo sfuggente di un viso emerge da quel viscoso sarcofago.
Alouette, gentille alouette, je te plumerai…
Annaspo di orrore, eppure adesso anche io sto cantando, un sussurro a fior di labbra che celebra quel macabro spettacolo.
Eccoti.
Ancora una volta.
Emergi dalla melma come una Venere sfregiata, le labbra bluastre sorridono in un viso sfigurato dal gonfiore, striato da putride ciocche di capelli.
Lacrime salate si disciolgono nelle gelide acque del lago.
Hai lo stesso vestito.
Il vestito azzurro di quel giorno.
E sono nudi quei piedi che avanzano verso di me.
No.
Ti stringo a me, ma le mie braccia affondano nella tua pelle sfilacciata, perforano il viscido involucro del tuo corpo.
Sotto i miei occhi, ti disgreghi in brandelli di carne bluastra.
Il mio abbraccio si infrange sul tuo vestito azzurro, vuoto.
La bimba con gli occhi neri ha smesso di cantare.
****
Come proseguirà la storia? Cosa troverà lo scrittore al suo risveglio?
a) Delle parole incise sulla sabbia con la propria calligrafia: una richiesta di aiuto.
b) La bambina con gli occhi neri, che lo fissa in silenzio.
c) "Aloutte, gentille alouette..." Qualcuno sta cantando.
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E in esclusiva, ecco "Alouette": http://www.youtube.com/watch?v=LiCZe8FIKnc

giovedì 4 aprile 2013

La donna di carta - capitolo 1

1. INCUBO

Eccoti.
Nei miei sogni, ancora una volta.
Come una dea o uno spettro.
E forse sei entrambi, una doppia maschera di poesia e orrore, di ispirazione e raccapriccio.
Una sadica musa che si nutre d’inchiostro e di sangue, che anela all’eterno riposo delle mie pagine.
Un abominevole compromesso a cui né arte né penna possono piegarsi senza essere dannate in eterno.
Di giorno è più facile. È facile astenersi dallo scrittoio, da quelle pagine che ti reclamano e ti invocano. È facile schivare gli attacchi della memoria, sfuggire alle sue dita sottili che vorrebbero allacciarsi attorno alla mia mente, abbracciarla nel loro gelido calore.
Ma la notte… la notte la porta dell’inconscio si socchiude, e quelle stesse dita si insinuano nello spiraglio, strisciano dentro me sotto forma di languidi pensieri.
Ed ecco, sono di nuovo lì, di nuovo perso nella rete profumata dei tuoi capelli corvini, nella trappola scarlatta delle tue labbra schiuse sulle mie, nel candore di perla del tuo collo reclinato all’indietro in una risata. Ti accarezzo il viso, ti faccio ballare, stringo al petto le tue mani giunte alle mie in un’eterna unione.
Uno, due, tre, giravolta…
Mi sorridi, e lentamente il tuo sorriso inizia a disgregarsi, la pelle avvizzisce attorno ai denti, gli occhi affondando in un viso sempre più scheletrico. L’inerzia della danza soffia via i tuoi ultimi resti mortali, ed è una creatura senza più corpo né anima quella che danza insieme a me in un macabro valzer.
Sorridi ancora, sorride quella tetra allegoria di te, fatta di ossa, polvere e dolore: e la tenerezza è intrisa d’orrore, e l’orrore di tenerezza, perché sei tu, nonostante tutto.
Nonostante tutto, tu.
Mi sveglio sudato, con l’umida scia della tua mano bagnata di affetto e di vendetta ancora sulle guance.
Il letto, un groviglio di lenzuola annodate da sogni troppo contorti per dispiegarsi alle vele dell’alba.
Mi sollevo lentamente, scrollandomi di dosso frammenti di sensazioni e di ricordo.
Cerco nella routine del mattino il conforto dell’abitudine, ma non c’è abitudine dove ci sei tu, non c’è mai stata.
Lo specchio del bagno mi restituisce l’immagine di un uomo più vecchio e più triste di quello che si è coricato la sera prima. Sembra che ogni secondo di questa notte abbia inciso la sua personale tacca sul mio viso, come un carcerato sulle pareti della cella.
E dopotutto, stanotte non sono stato forse tuo prigioniero?
Incatenato al tuo ricordo come un cane al palo, destinato a imputridire attorno ad esso.
Affacciato alle verdi finestre dei tuoi occhi, tra le sbarre delle ciglia ho pianto lacrime di mancata amnistia.
Non esiste fine alla prigionia che inizia con la morte.
Come un ergastolano, cammino in due metri quadri di vita, accompagnato dal suono di passi chiusi su stessi, senza speranza di assoluzione.
Sei la mia cella, e la chiave l’hai portata via con te.
Vorrei non guardare, ma i miei occhi stanchi sembrano agire contro la mia volontà.
Si volgono con la rassegnazione di chi ormai ha rinunciato a sperare.
E come ogni mattina, sono là.
Candide come vergini sacrificali a un dio barbaro, deflorate da cicatrici d’inchiostro.
Pagine e pagine che non so quando ho scritto.
E che, come sempre, parlano di te.
Della tua ferale bellezza.
Del nostro amore dannato.
Di un patto che non conosce confini.
E di una promessa.
La promessa che sto per raggiungerti.


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