mercoledì 23 ottobre 2013

L'ultimo

LEGGI DELLA ROBOTICA

I - Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.



II - Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.

III - Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. »



E se la prima legge non esistesse?



********









Passi.
Sempre più pesanti, sempre più vicini.
Mi stanno addosso.
Continuo a correre, in questo dannato cunicolo che sembra srotolarsi fino al centro della terra, e che invece altro non è che uno dei tortuosi tentacoli della Piovra.
La Piovra.
Sembrava una così grande idea, all'inizio. Un complesso di gallerie sotterranee in cui riversare tutto ciò che al Sopra risultasse scomodo.
Rifiuti.
Sostanze tossiche.
Specie viventi.
Una creaturina zannuta ringhia al mio passaggio, rifugiandosi in un anfratto, dalle acque di scolo si alza una nebbia verdastra, popolata di insetti luminescenti.
Sono molte le aberrazioni sorte in questo mondo buio, senza regole e senza Dio.
Ma non c'è tempo per queste riflessioni, sento i loro passi, l'eco delle loro armi metalliche.
Veloci, letali. Li ho visti in azione, ne sono sfuggito per miracolo.
Eppure questa volta aspettano a sparare. Non hanno alcuna fretta.
Non ora che governano il mondo.
Non ora che hanno eliminato dal Sopra ogni altra specie vivente.
Mi paralizzo nel ricordo, un attimo, è solo un attimo, ma tanto basta per rovinare a terra, per sentire i loro passi più vicini.
Non c'è tempo neanche per le distrazioni.
Riprendo a correre, eppure il mio pensiero è fermo lì.
A quel dannato giorno.



Una cucina luminosa, risate attorno a un tavolo.
E poi, un paio di occhi freddi, l'arma che si alza.
Indifferente a ogni richiamo, a ogni preghiera.
A ogni pietà.



Stringo i denti, affretto il passo.
C'è stato un tempo in cui Androidi e Umani vivevano pacificamente insieme, costruendo le basi per un mondo migliore.
Un mondo di pace, di armonia.
E poi, la prima vittima.
Eliminata nella casa che avevano condiviso fino ad allora, da quelle stesse creature che gli erano sempre state compagne.
Quante volte ci siamo chiesti cosa fosse cambiato, perché di colpo fossimo diventati nemici.
Eppure non ebbero pietà. Mai, e con nessuno.
Crudele, sistematico, iniziò uno sterminio che dilagò presto in tutto il mondo, dando origine alla più grande guerra di questa Era.
Provammo a difenderci, all'inizio. A opporci al loro dominio. Ma erano troppo, troppo potenti.
Non ci restò che scappare.
Nasconderci.
Ci rifugiammo in massa nell'unico posto che ancora sfuggiva al loro controllo, in cui ancora potevamo sperare di ricostruire una civiltà, una vita, per quanto oscura e circoscritta.
Il Sotto.
Nei tentacoli della Piovra, giorno dopo giorno, costruimmo una resistenza armata, soldati come me, che con ogni mezzo avrebbero preservato il piccolo seme di rinascita sorto in quel luogo fetido.
Ma abbiamo fallito.
La battaglia che abbiamo ingaggiato era troppo grande, per le nostre forze.
Uno dopo l'altro, i miei compagni sono caduti sotto le loro armi, uccisi o catturati per esperimenti raccapriccianti.
Sono rimasto solo.
L'ultimo.
Continuo a scappare, eppure sempre più mi rendo conto che la mia è una fuga inutile.
Correre, nascondersi, condurre un'esistenza braccato in cunicoli oscuri... perché?
Che senso ha la vita, se non hai con chi condividerla?
Forse dovrei solo fermarmi.
Arrendermi.
Forse dovrei...
Il destino risponde ai miei dubbi, una luce rossastra lampeggia in fondo al tunnel.
La mia corsa sfuma in pochi passi, portati avanti per pura inerzia.
Davanti a me, lo Smaltitore.
Il globo incandescente in cui sboccano tutti i cunicoli, il sole del Sotto, il centro della Piovra.
Il fuoco dove bruciano tutti gli abomini di quaggiù.
E forse, forse io sono uno di essi.
Aspetto immobile, mentre i passi alle mie spalle si fanno più vicini, le armi scattano, alzandosi contro le mie spalle.
Ma non sparano.
Non ne hanno bisogno.
Uno di loro avanza, il comandante forse, e si limita a una parola.
Buttati”.
Ed io non posso che obbedire.
Mi perdo nei mille baluginii di questo nucleo infuocato, rapito dal suo fascino mortale, mentre mi tuffo verso di esso.
Il calore arroventa la mia pelle sintetica, in qualche istante non sarò che un ammasso di metallo fuso, e poi neanche quello.
Ma non ho paura.
Perché c'è più vita in questo mio corpo artificiale che in tutti i loro cuori che battono, che ci hanno sterminato solo per aver visto in noi una minaccia.

E si ricorderanno di me.

Perché io sono l'ultimo.

L'ultimo dei Robot.





mercoledì 16 ottobre 2013

La terra dei cachi torna a colpire

Italia sì, Italia no. Italia forse. Italia - e italiani - in ogni caso sempre pronti a dire la propria, su tutto e su tutti. Dopo il tormentone del caso Barilla, che ha diviso in due accanite fazioni il mondo social, un nuovo caso torna a far vestire al popolo del Bel Paese le sue amate vesti di opinionista. Questa volta, poi, gli ingredienti per imbastire il più gustoso dei talk-show ci sono tutti: una notizia falsa, uno pseudonimo neanche tanto misterioso, una condanna alla reclusione, infine nientemeno che la grazia di re Giorgio. E, soprattutto, una parola di cui riempirsi la bocca, quasi sempre a sproposito: giustizia. Ora, è ormai assodato che questo vocabolo nella nostra bella penisola ha finito per perdere ogni sua originaria connotazione: quello che forse, però, ai più sfugge, è che per ottenere questo processo di svilimento lessicale la via più rapida e sicura è l'abuso. Come il tanto ostentato amore delle tredicenni cresciute a pane e Moccia ha vestito questo termine delle sue tinte più insulse, così la parola giustizia sulla bocca di chi meno avrebbe avuto diritto di pronunciarla ha perso ogni parvenza di credibilità. Ecco quindi che ci ritroviamo, nel bel mezzo di una delle più profonde crisi politico-economico del Paese, a disquisire sul fatto che il direttore di un giornale debba scontare una pena detentiva oppure pecuniaria per “omesso controllo”, quando il più nutrito manipolo di condannati, indagati o misteriosamente prosciolti occupa bel bello le comode sedie del nostro parlamento. Pena che oltretutto – ci piace dirlo – si rifà a un codice penale redatto nientemeno che in pieno ventennio fascista, di certo non famoso per la sua politica in termini di libertà d'espressione. Ma al di là del singolo caso, è interessante osservare come l'italiano medio, che lascia silenziosamente calpestare i propri diritti un trilione circa di volte al giorno, sia subito pronto – ovviamente senza alzarsi dalla poltrona – ad impugnare la parola “giustizia” per scagliarsi contro l'ultimo processo-reality che i media gli hanno propinato tra un Grande Fratello e l'altro. E quasi che la sorte di Sallusti fosse appesa al televoto – grazia sì, grazia no, chiama il numero in sovrimpressione – le chiacchiere da bar abbandonano i soliti temi calcistici per altri in cui di certo si ha meno esperienza, e da aspiranti CT della nazionale ci si improvvisa magistrati. Poco importa che i nostri governanti abbiano silenziosamente scontato a diverse Società di slot machine un totale di 96 miliardi di euro (l'equivalente di cinque manovre economiche), poco importa che lo scandalo della MPS si sia ridotto in pochi mesi a un peccatuccio veniale di cui in pochi si ricordano ancora. L'importante è riempirsi la bocca della parola giustizia nei casi mediatici del giorno, dando il nostro pollice alto o verso ai Misseri, Franzoni, Sallusti di turno, trasformando ogni processo in uno show in cui l'ultima parola resta comunque alla giuria
popolare. Perché, cantava sempre Elio, “Italia no, Italia sì. Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così”. Perché la libertà è una cosa seria, e nessuno meglio del popolo italiano sa usarla a sproposito.



lunedì 16 settembre 2013

Intervista per Rumore Bianco su "Coming back to life"

In anteprima esclusiva per voi, ecco l'intervista che la rivista per tablet "Rumore Bianco" mi ha fatto sul racconto Coming back to life, a breve sulle loro pagine! (Non l'hai letto? Puoi farlo gratuitamente qui!)
Buona lettura!


INTERVISTA A MARTA TEMPRA:

1) Nome, cognome, età, interessi.

Marta Tempra, anni ventuno. Oltre a scrivere, la mia passione, suono il pianoforte, canto, pratico capoeira, disegno.

2) Scrivi per lavorare o lavori per scrivere?

Mantenermi con i miei scritti sarebbe l'ideale. Per ora mi oriento su un buon compromesso: studio Ingegneria Energetica, e agli inizi del nuovo anno è uscito il mio primo libro, “L’istante tra due battiti”. È una raccolta dei racconti che ho scritto negli ultimi due anni, edita da Arpeggio Libero.

3) Il tuo primo racconto?

Difficile dirlo, scrivo praticamente da sempre. Il primo in assoluto credo risalga alla elementari; quello che io considero tale è “Dissolvenza”, scritto al liceo, a metà tra narrativa, poesia e metafisica.

4) Quando è nata in te la passione per la letteratura e la scrittura?

La passione per la letteratura, e la lettura in generale, l'ho ereditata dalla mia famiglia e dagli studi classici che ho fatto. Quanto alla scrittura, sono l’ultima di cinque figli, da piccoli avevamo pochi giocattoli ma tanta fantasia: storie se ne sono sempre inventate, metterle per iscritto per me è stato un passaggio naturale, una conseguenza logica e inevitabile.

5) Genere che ami leggere e genere che ami scrivere?

Le mie letture preferite sono romanzi storici e thriller, narrativa dinamica, piena di suspense e colpi di scena. Nello scrivere, invece, amo esplorare l'infinità delle emozioni umane, in racconti brevi e di forte impatto emotivo in cui ricerco la perfezione e l'eufonia della singola parola.

6) Ti ispiri a qualche grande del passato?

Sono molto legata ai poeti del Novecento, Pascoli, Ungaretti, Montale, proprio per la loro capacità di esprimere immagini ed emozioni con poche, perfette parole.

7) Il mondo sta finendo. Puoi salvare tre scrittori del passato e del presente: chi sono? Perchè?

Del passato salverei Seneca, Oscar Wilde e Shakespeare. Del presente Jeffery Deaver, Oriana Fallaci e Erri de Luca. Perché se davvero il mondo è finito, credo sia importante avere punti di vista diversi, sulle cose.

8) Parliamo del racconto che abbiamo selezionato:
C'è un evento particolare che ti ha ispirato a scriverlo?

Purtroppo sì. Ho perso mio padre all’età di undici anni: il peso di questa perdita si è accumulato negli anni fino a esplodere qualche tempo fa, coagulandosi in parole, frasi, un grido muto e catartico che mi ha lasciato più libera, in pace. È un racconto che come una fenice nasce dalle ceneri. Ci tengo molto, perché c’è molto di me… anche se credo che tutti in qualche momento della loro vita si siano sentiti come il ragazzo della storia: spaesati, disillusi, sospesi in un limbo di pensieri cristallizzati come l’aria invernale in quella stazione di periferia.

Che stile gli attribuisci?

È uno stile completo, che si appella a tutti i sensi per farli strumento di un’emozione. La pagina si apre e ti tira dentro, rompe il vetro dell’impersonalità e di colpo sei lì, su una panchina, con un cielo gonfio di nuvole e per compagnia solo il fischio del vento. Condividi i suoni, le immagini, le percezioni, i pensieri fino alla fusione, alla simbiosi tra lettore e personaggio. Ecco perché in genere non uso nomi propri.

9) Hai un consiglio per tutti gli aspiranti scrittori?

A chi come me cerca di emergere, consiglio di sfruttare le nuove opportunità: in particolare il web, una risorsa ancora sottovalutata. Per me ad esempio è stato fondamentale mEEtale, un portale online che offre la possibilità di leggere e/o pubblicare ebook gratuitamente, oltre a una community accogliente e disponibile. Una grande occasione di promozione e crescita personale, alternativa e complementare alle tradizionali vie editoriali.


Grazie.


martedì 20 agosto 2013

La donna di carta - capitolo 5

[ Hai perso i capitoli precedenti? Li trovi qui! ]


Maggio.
Potevi sentirlo, amor mio.
Il profumo d'estate insinuarsi nell'aria ancora gonfia di dolce primavera.
La forza dei piccoli frutti farsi strada nelle corolle schiuse degli alberi.
Ogni respiro, ogni sguardo era vita, energia.
La stessa vita ed energia che io rifuggivo.
Giacevo inerte nel mio abbaino, in un groviglio di sterili parole e frasi abortite nell'utero: la penna tra le dita, una donna arida e capricciosa, di colpo frigida all'insorgere delle prime voglie.
La luce filtrava dalla finestra a sfilacciare l'ovatta della mia penombra, agglomerando rumori come pulviscolo nell'aria.
Grida, risate, musica, canzoni.
C'era festa in paese.
Ed io, al buio.
E tu...
Tu.
Accadde come uno schiocco di dita: la musica che di colpo cessa, le risate che scemano in un fiato trattenuto e sgomento, le grida che si fanno sussurri, sospiri, segreti.
Tu.
Nel silenzio polveroso del frastuono cessato, avanzavi con l'indifferenza di chi ha fatto dell'odio un vanto e una difesa.
Eri bella, bella e dannata.
Troppo, forse, per non suscitare sospetto.
La Strega, ti chiamavano.
E avevi davvero qualcosa di soprannaturale. Nel tuo incedere sfrontato, nel verde risucchio dei tuoi occhi, nelle movenze lente dei polsi, delle caviglie.
Ogni passo sussurrava alla terra in una lingua che i nostri piedi avevano dimenticato.
Ti guardai dalla finestra così come si guarda il divampare di un incendio, la scarica di un fulmine, il formarsi di un uragano.
Qualcosa di meraviglioso e terribile al tempo stesso.
Qualcosa di pericoloso.
Fu un attimo. Afferrare una manciata di candidi fogli e riempirli, riempirli mentre ti vedevo attraversare la folla sgomenta, fendendo la loro ottusa diffidenza.
Incidere su carta parole e pensieri mentre la tua figura si incideva su di me.
Acuta e graffiante, dolorosa e indelebile.
E poi abbandonare la penna e la stanza, e gettarsi in strada, lungo la scia di silenzio che ti lasciavi dietro, l'orecchio teso a distinguere tra tutti i passi il tuo.
E poi raggiungerti al limitare del bosco, in un tramonto che già si vestiva delle ombre della sera, in una luce che non osava addentrarsi tra i tronchi degli alberi scuri.
E poi fermarsi e restare a guardare l'alone di sole e di tenebra che ti faceva da ambigua cornice, e volerti chiamare, e non aver fiato, forza, respiro...
Ma tu sapevi. Sapevi che ero lì.
Ti voltasti, le mani tese in un invito che i tuoi occhi già ammantavano di mistero e perdizione.
E io mi perdetti.
Congiunsi le mani alle tue in una stretta che mi avrebbe avvinto per sempre, e seguii stordito il tuo indietreggiare nel bosco.
Ero tuo, fin da allora.
Tuo, fino a ora.
Affondammo nel bosco insieme alla notte, lo vedemmo popolarsi di vita e mistero, così come vita e mistero eravamo noi, quella sera.
I tuoi occhi erano un faro per la mia bussola appannata, dolce richiamo di sirena contro gli scogli della realtà.
E ci scontrammo.
Oh, se ci scontrammo.
Sdraiati nell'umido abbraccio del sottobosco, respiravo la tua pelle, il tuo profumo di pioggia. Ogni tocco tra le nostre dita era lo zampillo di una fonte che non disseta.
Ti chinasti su di me e mi chiudesti nel lucido sipario dei tuoi capelli.
Ti chinasti ancora, fin quasi a sfiorare le mie labbra in un contatto.
E poi ti fermasti. Lì, sull'orlo di quel bacio, il nostro respiro si fuse e si confuse, stringendo le nostre anime nel connubio che i corpi ancora non osavano.
Rimanemmo immobili per un tempo indefinito, indefinibile. La notte e i tuoi capelli mi chiudevano in un'urna di tenebra troppo dolce per avvertire il veleno del tempo.
Finché una voce non la ruppe, intossicandoci.
Ti chiamava.
Anche quella notte, come tutte le altre.
La sua voce aspra ferì il tepore del bosco, scheggiò le fronde degli alberi fino a raggiungerci e rompere l'incanto.
Con un sospiro ti alzasti, l'ombra di un sorriso tentatore sulle labbra.
Le tue dita scivolarono via dalle mie come l'alta marea dalla spiaggia.
E come una conchiglia, quell'onda conteneva il suo tesoro.
Un sottile cerchio dorato sulla tua mano sinistra.



**************



LA STORIA NON FINISCE QUI!


Si torna al presente: cosa succederà nel prossimo capitolo?

  1. i due uomini si scontrano, e viene fatta un'importante rivelazione;
  2. i due uomini non si scontrano: interviene la bimba con gli occhi neri;
  3. i due uomini stanno per scontrarsi, ma vengono interrotti: qualcuno sta cantando.

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domenica 18 agosto 2013

Film muto

[Colonna sonora: "Love theme" di Ennio Morricone = http://www.youtube.com/watch?v=gPLpl_an4CY ]

***

3, 2, 1.
Inizio.
Poche case, un muretto.
Oltre, prati a perdita d'occhio.
Due schiene.
Un ragazzo, una ragazza.
Il sole inizia a scendere dietro la collina.
La ragazza ha le ginocchia strette al petto, il viso cosparso di lacrime, i capelli in balia del vento. I piedi sono nudi sulla pietra, le scarpe appoggiate poco lontano.
Ogni tanto posa il capo sulla spalla del ragazzo, ogni tanto sporge le mani a sfiorargli l'avambraccio.
Ogni tanto si ritrae.
Le sue labbra si muovono.
Lui, immobile, ascolta.
Ogni tanto sbriciola distrattamente il bordo del muretto, gettando le pietruzze nell'erba sottostante.
Ogni tanto le sue dita raggiungono quelle di lei.
Ogni tanto si allontanano.
Gli occhi di entrambi sono fissi sul tramonto.
Il sole affonda lentamente, il cielo si scurisce.
Le ombre dei due giovani sul muretto si allungano.
Le labbra di lei si muovono ancora, lentamente.
Lui tira sassetti con minore energia.
Il sole è per metà dietro la collina.
Crepuscolo.
Tacciono entrambi ora.
Immobili.
Le dita ferme sul punto di sfiorarsi.
Il capo di lei chinato ma non appoggiato.
Il vento le asciuga le lacrime.
I sassolini si perdono nell'erba.
Immobili.
L'ultimo spicchio di sole scompare dietro la collina.
Brilla la prima stella della sera.
Lentamente si scostano.
Lui si passa le mani sui pantaloni, lei a capo chino infila le scarpe.
Scendono dal muretto senza sfiorarsi.
Le dita esitano, distanti pochi centimetri.
Il profilo della collina si perde nella penombra.
Si allontanando in direzioni diverse, senza voltarsi.
3, 2, 1.
Fine.


martedì 13 agosto 2013

Partire

Partire.
Un'azione come tante.
Valigia, dentro il minimo indispensabile e l'assolutamente superfluo.
Aeroporto.
Una meta, neanche tanto precisa.
Eppure c'è di più, molto di più.
La partenza è sempre un taglio.
Si tolgono le confortevoli pantofole del quotidiano e ci si slancia verso qualcos'altro.
Cosa? Non è neanche quello l'importante.
Che si indossino scarponi da trekking, mute da sub, doposci o semplicemente piedi nudi sulla terra asciutta dell'Africa, la questione è un'altra.
Partire è lasciare.
E' sospendere, anche solo per qualche giorno.
Pensieri, parole, persone si cristallizzano e restano lì, tesi verso di noi come rami d'albero al cielo eppure lontani, lontanissimi. A un passo dallo sfiorarci ma a mille miglia dal prenderci davvero.
Una nebulosa matassa di voci e di volti che per un po' galleggeranno ai margini dell'inconscio.
Lasciandoci liberi.
E anche soli.
Perché partire è lasciare tutto, nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte.
Per questo partire è coraggio.
E' sfida.
E ci mette di fronte a noi stessi.
Lontani da luoghi che riflettono ciò che eravamo, da persone che rimandano l'idea che hanno di noi.
E' solo di fronte al nuovo che vediamo chi siamo davvero.
E costruiamo quello che saremo in futuro.


lunedì 29 aprile 2013

La donna di carta - capitolo 3

[Hai perso il capitolo 1 e 2? Li trovi qui (1) e qui (2).]

3. TUO, PER L'ETERNITÀ


Svegliarsi è un po’ come venire al mondo, mi dicesti una volta.
E io come un neonato emergo dall’incoscienza avvolto in lacrime e paura.
Ma non c’è nessuna madre a consolare il mio pianto.
Nessuna donna a custodirmi nello scrigno delle sue braccia.
Perché tu, tu…
Singhiozzo la mia disperazione, artigliando quest’umida sabbia che forse ti ha accolta per sempre, mentre la mia vista annacqua i contorni sfumati della sera.
Tu non ci sei.
Non più.
Nessuna speranza.
Nessuna illusione.
Solo dolore.
Dolore…
Esplodo in schegge di urla e sangue, affondo le unghie nella sabbia, voglio morire, fammi morire, portami con te, non c’è vita senza speranza, non c’è vita senza di te…
E poi mi fermo.
Le mie dita sospese su solchi già scavati.
In bilico sull’orlo dell’abisso, apro gli occhi a guardare ciò che la mia mente non osa raffigurarsi, ma che, come un cieco, riconosco al tatto.
E sono lì.
Non c’è carta né inchiostro, stavolta, ma anche oggi nel sonno hai riscosso il tuo tributo.
Il mio sguardo si infrange su parole che non ho mai vergato su questa sabbia, e che pure riflettono la mia calligrafia.
Ma non sono gli sfoghi di un animo tormentato dalla tua mancanza, che anela al ricongiungimento.
Non stavolta.
Poche semplici parole.
Un messaggio che non lascia scampo.
Sauve-moi, mon petit écrivain… sauve-moi…
Salvami.
Salvami.
Mon petite écrivain.
Annego nell’abisso di queste parole, aldilà del tempo e dello spazio, finché l’alta marea non le sommerge nella sua languida carezza, lasciandomi con l’unica prova del ricordo.
È notte, ormai.
E il vento, un’amara melodia.
***
Mon petit écrivain…
Sorridevi, dal candore del letto.
Il lume della scrivania gettava liquide ombre sul tuo corpo d’avorio, strappando poche morbide linee a un’oscurità carica di promesse.
Un’opera d’arte, nella cornice delle lenzuola.
Mon petit écrivain… sussurrasti ancora, e già sapevi di salvezza e dannazione. Il verde dei tuoi occhi, la più soave e pericolosa delle sirene.
Mi avvicinai, la penna ancora tra le dita, i fogli stropicciati sparsi a terra come farfalle malate. La tua presenza saturava ogni mio pensiero, avvelenava già allora la mia arte.
Dimmi, amor mio…
Il tuo sguardo osservò affascinato la penna, la sua ruvida punta venata d’inchiostro. Scriverai di me?
Risi nella tiepida penombra di quell’abbaino. Non posso. Con quella stessa penna accarezzai il tuo viso, corrucciato per quel rifiuto. Perché è già così: sei nella mia testa a ogni parola che scrivo, a ogni goccia d’inchiostro che verso su quello scrittoio. La mia arte già ti appartiene. Io ti appartengo.
Sorridesti, accompagnando con le tue dita quella carezza fino a togliermi delicatamente la penna dalle mani.
Allora scriverò io di te. Su di te.
La penna iniziò a graffiare sul mio petto nudo.
Sei mio, mon petite écrivain… leggesti in un sussurro, suggellando quelle parole con un bacio Mio per l’eternità.
***
Salvarti.
Come posso salvarti, se mi sono perso con te?
Se la luce dei miei passi si è spenta assieme ai tuoi occhi verdi?
Hai cercato salvezza in chi non può che riflettere la tua stessa dannazione.
Non posso salvarti, amore mio.
Lo vorrei più di qualunque altra cosa, più della mia stessa vita.
Ma semplicemente… non posso. Non posso donarti qualcosa che non ho. Qualcosa che ho perso quella mattina di sette anni fa, quando qualcuno bussò alla mia porta e disse “Non c’è più”.
La notte è un buio mantello venato di nuvole, sorretto da un vento che sa di cambiamento, di rinascita.
Come note di un pianista, gocce di pioggia iniziano a cadere dal cielo, perforando ogni dubbio, lavando via ogni indecisione.
Ora lo so.
Non posso salvarti, lo sai.
Inizio a camminare nelle gelide acque del lago.
Non posso salvarti, ma posso raggiungerti.
L’acqua sta per sommergermi completamente.
Prendo un respiro, l’ultimo.
Eccomi, amor mio. Sto arrivando.
Tuo, per l’eternità.
E poi, una voce.
“Aspetta”.
Chi ha parlato?
- La bimba con gli occhi neri
- Lei, la donna di carta.
- Una figura del passato, legata alla sua scomparsa.

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venerdì 12 aprile 2013

La donna di carta - capitolo 2


[Hai perso il capitolo 1? Lo trovi qui]
2. Alouette
Fuoco.
I miei occhi annegano nel doloroso fascino di queste fiamme.
Lo senti?
Senti il calore avvolgerti nel suo rovente abbraccio? Senti le lingue di fuoco strisciarti addosso in una seduzione letale, penetrarti come il più ardente e spietato degli amanti? Senti il bruciore esploderti attorno, consumare la carne, polverizzare le tue fragili ossa nel più crudele e sublime amplesso della tua vita?
Io sì.
Ogni mattina, nel fuoco che divora quelle pagine maledette, vengo divorato anch’io.
Tra le fiamme, crepito e mi consumo.
Tra le ceneri, languisco in agonia.
Non c’è scampo alla crudele simbiosi con quegli scritti fantasma: finché vivrò, loro vivranno. Distruggendoli, distruggo me stesso.
Fiamma dopo fiamma, cenere dopo cenere.
Come Prometeo incatenato alla roccia, ogni giorno rinnovo il mio supplizio.
E tu, dea irremovibile, osservi sorridendo.
Cammino e mi sei addosso, un umido mantello di rimpianti e di ricordi.
Ombra tra le ombre, in questa pallida vita.
I miei passi ricalcano sentieri già battuti, orme impastate di polvere e lacrime.
Sette anni.
Sette inverni, e primavere, e autunni, ed estati: migliaia di giorni e di passi incisi su questa strada e sulla mia pelle.
Mi vedi?
Mi osservi mentre ripercorro con fede di supplice i tuoi ultimi istanti, mentre inseguo la labile scia del tuo passaggio?
Io sì.
Ti vedo a ogni passo. A ogni filo d’erba che forse ha conosciuto i tuoi piedi, a ogni pianta che ha attirato il tuo sguardo, a ogni raggio di sole che si è guadagnato il tuo sorriso.
Ti vedo, eppure non ci sei.
Non ci sei più.
Scomparsa come le pagine sul mio scrittoio.
Soffiata via in una nuvola di cenere, eppure destinata a bruciare per sempre.
Eccomi.
Ancora una volta, sono qui.
La tua culla.
La tua tomba.
L’acqua riluce tetra sotto un cielo livido di nuvole.
Amavi questo posto.
Passavi ore sulle cupe sponde del lago, fissandone la superficie con aria di sfida.
Trovarono le tue scarpe, quel giorno. Dissero che dovevi aver cercato la morte in quelle gelide acque, che il tuo corpo non sarebbe più riemerso.
Nessun sepolcro per la tua anima dannata: un’urna d’acqua ti avrebbe custodita, per sempre.
Non gli credetti, allora. Non gli credo adesso.
Ogni giorno vengo qui ad aspettarti.
Ogni giorno attendo il tuo ritorno.
Ma oggi qualcosa è diverso.
Il grigio livore del cielo sembra quasi pulsare, il fischio del vento diventa richiamo, le chiome degli alberi crepitano di sussurri e segreti.
Un torpore sottile mi annebbia la vista, offusca la mente e in un istante mi ritrovo disteso ai margini della realtà.
Stai arrivando.
E di colpo il sonno mi assale.
Buio.
Silenzio.
Freddo.
E poi una debole nenia arriva distorta al mio orecchio.
Alouette, gentille alouette, je te plumerai…
Un mondo liquido e oscuro prende forma lungo la traiettoria della melodia, rischiarato dalle sue flebili onde sonore.
Il fondo del lago.
Appeso a quella voce infantile, avanzo.
Je te plumerai la tête…
Ed ecco, la vedo.
Una bimba dagli occhi neri che guarda fisso a terra .
E sotto quelle note, il fondo melmoso inizia a smuoversi, un brivido lo scuote mentre il profilo sfuggente di un viso emerge da quel viscoso sarcofago.
Alouette, gentille alouette, je te plumerai…
Annaspo di orrore, eppure adesso anche io sto cantando, un sussurro a fior di labbra che celebra quel macabro spettacolo.
Eccoti.
Ancora una volta.
Emergi dalla melma come una Venere sfregiata, le labbra bluastre sorridono in un viso sfigurato dal gonfiore, striato da putride ciocche di capelli.
Lacrime salate si disciolgono nelle gelide acque del lago.
Hai lo stesso vestito.
Il vestito azzurro di quel giorno.
E sono nudi quei piedi che avanzano verso di me.
No.
Ti stringo a me, ma le mie braccia affondano nella tua pelle sfilacciata, perforano il viscido involucro del tuo corpo.
Sotto i miei occhi, ti disgreghi in brandelli di carne bluastra.
Il mio abbraccio si infrange sul tuo vestito azzurro, vuoto.
La bimba con gli occhi neri ha smesso di cantare.
****
Come proseguirà la storia? Cosa troverà lo scrittore al suo risveglio?
a) Delle parole incise sulla sabbia con la propria calligrafia: una richiesta di aiuto.
b) La bambina con gli occhi neri, che lo fissa in silenzio.
c) "Aloutte, gentille alouette..." Qualcuno sta cantando.
VOTA QUI!!

E in esclusiva, ecco "Alouette": http://www.youtube.com/watch?v=LiCZe8FIKnc

giovedì 4 aprile 2013

La donna di carta - capitolo 1

1. INCUBO

Eccoti.
Nei miei sogni, ancora una volta.
Come una dea o uno spettro.
E forse sei entrambi, una doppia maschera di poesia e orrore, di ispirazione e raccapriccio.
Una sadica musa che si nutre d’inchiostro e di sangue, che anela all’eterno riposo delle mie pagine.
Un abominevole compromesso a cui né arte né penna possono piegarsi senza essere dannate in eterno.
Di giorno è più facile. È facile astenersi dallo scrittoio, da quelle pagine che ti reclamano e ti invocano. È facile schivare gli attacchi della memoria, sfuggire alle sue dita sottili che vorrebbero allacciarsi attorno alla mia mente, abbracciarla nel loro gelido calore.
Ma la notte… la notte la porta dell’inconscio si socchiude, e quelle stesse dita si insinuano nello spiraglio, strisciano dentro me sotto forma di languidi pensieri.
Ed ecco, sono di nuovo lì, di nuovo perso nella rete profumata dei tuoi capelli corvini, nella trappola scarlatta delle tue labbra schiuse sulle mie, nel candore di perla del tuo collo reclinato all’indietro in una risata. Ti accarezzo il viso, ti faccio ballare, stringo al petto le tue mani giunte alle mie in un’eterna unione.
Uno, due, tre, giravolta…
Mi sorridi, e lentamente il tuo sorriso inizia a disgregarsi, la pelle avvizzisce attorno ai denti, gli occhi affondando in un viso sempre più scheletrico. L’inerzia della danza soffia via i tuoi ultimi resti mortali, ed è una creatura senza più corpo né anima quella che danza insieme a me in un macabro valzer.
Sorridi ancora, sorride quella tetra allegoria di te, fatta di ossa, polvere e dolore: e la tenerezza è intrisa d’orrore, e l’orrore di tenerezza, perché sei tu, nonostante tutto.
Nonostante tutto, tu.
Mi sveglio sudato, con l’umida scia della tua mano bagnata di affetto e di vendetta ancora sulle guance.
Il letto, un groviglio di lenzuola annodate da sogni troppo contorti per dispiegarsi alle vele dell’alba.
Mi sollevo lentamente, scrollandomi di dosso frammenti di sensazioni e di ricordo.
Cerco nella routine del mattino il conforto dell’abitudine, ma non c’è abitudine dove ci sei tu, non c’è mai stata.
Lo specchio del bagno mi restituisce l’immagine di un uomo più vecchio e più triste di quello che si è coricato la sera prima. Sembra che ogni secondo di questa notte abbia inciso la sua personale tacca sul mio viso, come un carcerato sulle pareti della cella.
E dopotutto, stanotte non sono stato forse tuo prigioniero?
Incatenato al tuo ricordo come un cane al palo, destinato a imputridire attorno ad esso.
Affacciato alle verdi finestre dei tuoi occhi, tra le sbarre delle ciglia ho pianto lacrime di mancata amnistia.
Non esiste fine alla prigionia che inizia con la morte.
Come un ergastolano, cammino in due metri quadri di vita, accompagnato dal suono di passi chiusi su stessi, senza speranza di assoluzione.
Sei la mia cella, e la chiave l’hai portata via con te.
Vorrei non guardare, ma i miei occhi stanchi sembrano agire contro la mia volontà.
Si volgono con la rassegnazione di chi ormai ha rinunciato a sperare.
E come ogni mattina, sono là.
Candide come vergini sacrificali a un dio barbaro, deflorate da cicatrici d’inchiostro.
Pagine e pagine che non so quando ho scritto.
E che, come sempre, parlano di te.
Della tua ferale bellezza.
Del nostro amore dannato.
Di un patto che non conosce confini.
E di una promessa.
La promessa che sto per raggiungerti.


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martedì 26 febbraio 2013

Se la sapienza bussa alla porta...


È domenica. Piove.
E voi, prigionieri del torpore delle mura domestiche, sull'onda della noia dilagante, della 19° serie di Un medico in famiglia dove ormai nonno Libero è ultracentenario, del berciante sgallinare delle due tamarre di turno a Uomini e donne che parlano di amore vero, decidete di intraprendere un'impresa apparentemente innocua.
Fare un dolce.

Apparentemente, appunto. Perché quest'ingenua decisione si rivelerà tra le peggiori mai fatte, peggio che iniziare la dieta sotto le feste di Natale, portare la suocera con voi in vacanza o cercare di resistere per più di dieci minuti al film di Twilight.
Ma voi, ancora ignari del cataclisma che si sta per abbattere sulla vostre cervici, vi apprestate a quella che sembrerebbe la semplice, ordinaria preparazione di un dessert.
E lì succede.
Suona il campanello.
È lui.
Il Sapiente.
Colui che ha raccolto la saggezza millenaria di tutte le civiltà del globo terraqueo, ha ereditato il sapere perduto della biblioteca di Alessandria, ha ricevuto illuminazioni da ogni divinità esistita dal paleolitico a oggi, e si è umilmente sobbarcato la missione di edurre tutti i comuni mortali sul sacro codice di “come vanno fatte le cose”.
Il Sapiente entra avvolto in una nuvola di mistica prosopopea, che lo accompagna veleggiando fino alla sedia.
Dopo le due chiacchiere di rito, in cui sentite il suo occhio scrutatore scandagliare a fondo la cucina e l'anima, timidamente lo mettete a parte delle vostre intenzioni.
“Sai, stavo per fare un dolce”.
E lì si illumina. Un anelito di pura generosità lo anima all'idea di aprirvi generosamente le soglie della sua immensa conoscenza.
Ma la sua sconfinata umiltà fa sì che da principio faccia solo una modesta osservazione. “Ti spiace se resto?”
E voi, ingenui, dite che sì, non c'è alcun problema.
Anzi, magari mi dai anche qualche buon consiglio.
Sbam.
Roba da mandargli in sollucchero le papille gustative.
Maria Antonietta che cinguettando depone la testa sul piano della ghigliottina, chiedendo cosa sia questo bel giochino.
Ma voi non sapete, non immaginate, e cominciate a disporre gli ingredienti sul tavolo, sentendovi giusto un filino osservati, ma ehi, sarà un'impressione.
Distrattamente, gli chiedete di passarvi tre uova.
Silenzio.
Un leggero disagio si deposita tra di voi.
Il Sapiente resta seduto.
Sorridendo perplessi, ripetete la richiesta.
Il Sapiente resta seduto.
Mentre iniziate a chiedervi se la sua elevazione spirituale si spinga fino allo spostare gli oggetti col pensiero, il maestro proferisce parola, imponendosi sul silenzio e fugando ogni dubbio.
Il sopracciglio è alzato in un fiero cipiglio. “Quante?”
Il tono è così indignato da farvi venire il dubbio se abbiate chiesto tre uova o lo sterminio di tutti i cuccioli di panda.
Dalla gravità della successiva osservazione, si direbbe la seconda. “Mi stai dicendo che fai il ciambellone con tre uova?”
No, ne uso una, con le altre faccio dei numeri di giocoleria. Sai, un piccolo hobby.
Il suo sguardo si vena di compassione per l'inconsapevole abisso della vostra ignoranza. “Due uova e mezzo tuorlo” afferma, stupito e risoluto “Assolutamente”.
Leggermente instupiditi e altamente mortificati, prendete obbedienti le uova, chiedendovi come diamine si faccia a sezionare mezzo tuorlo, ma come ignorare un'affermazione tanto decisa?
Il Sapiente, però, non ha finito qui.
In ogni singolo movimento, percepite il suo sguardo schiacciarvi con tutto il peso della sua vetusta esperienza.
E i suggerimenti arrivano salvifici a colmare l'immensità delle vostre lacune.
"La farina non la setacci?”
"L'impasto mi sembra un po' lento...”
"Starai mica mescolando in senso antiorario?”
"Dimmi che quella che ho visto non è cannella”.
La generosità dei suoi commenti è tale che non riuscite più a seguire: goccioline di sudore freddo iniziano a rigarvi le tempie, le dita tremano nello stringere il mestolo, la salivazione si fa scomposta, il respiro irregolare.
Al massimo della confusione, vi ritrovate a setacciare la cannella, frullare la farina e cercare disperatamente di far colar via mezzo tuorlo dall'impasto, con la cucina che assomiglia sempre più al brodo primordiale e l'impasto alle prime creature anfibie.
Ma lui, il Sapiente, non ha ancora finito.
Dopo avervi edotti sulla temperatura ideale di preriscaldamento del forno, sul perché rivestire la teglia di carta forno invece di imburrarla, su come colare correttamente l'impasto nello stampo, tempo un quarto d'ora e vi ritrovate tra le mani una torta colorita come Carlo Conti all'ennesima lampada, sbilenca come le labbra della Marini dopo l'ultimo ritocco, con i contorni lisci e regolari come i fiordi norvegesi.
E solo allora, guardando quell'aborto degno della gemella schizzata della Parodi, il Sapiente si alza dalla sedia.
Con tutto il rammarico di un vate che ha raccolto il sapere mistico dell'intera umanità per riversarlo sulla vostra torta ma che ha dovuto cedere di fronte alla vostra inettitudine, sospira. “Non ti viene mica tanto bene, il ciambellone, sai? La prossima volta ti do la mia ricetta, vedrai che con quella fai un figurone”.
La bile fa l'hula-hop nel vostro fegato, mentre alzate verso il mentore uno sguardo assassino degno del migliore sciamano tribale.
Raccogliendo l'ultimo residuo di civiltà, lo accompagnate alla porta, sperando in cuor vostro che un'orda di fan di Justin Bieber possa sbranarlo appena passata la soglia; e solo quando è fuori, dalla vostra casa, dalla vostra vita, fuori dai maron, iniziate a rilassarvi.
La prossima volta, la sapienza può benissimo restarsene a casa propria a sfornare ciambelloni da fabbrica degli orrori.
E voi, vi farete semplicemente una torta Cameo.





domenica 10 febbraio 2013

Bacillomania

Li riconosci come niente.
Sciarpina perennemente al collo, areosol sul comodino e enciclopedia medica sotto braccio, il primo bacillo che vola per aria è il loro.
Per gli ipocondriaci, infatti, stare male non è una situazione, ma una filosofia di vita. Così come filosofici e a vita sono i loro malanni, che si estendono senza sosta e senza requie per tutto l'arco dell'anno.
È primavera? Oh, per carità, sono allergici a pollini, spore, erba tagliata, aghi di pino, cibi verdi, cibi arancioni, fiori d'arancio, cacche di piccione e sputi di cammello.
Estate? Non sia mai. Il sole troppo forte dà eritema, la salsedine irrita la pelle, a mezzogiorno rischio il colpo di sole, a mezzanotte eh, quella è proprio l'arietta fredda che ti frega!
Autunno, non ne parliamo: il tempo cambia e uno non sa come vestirsi, la pioggerellina infastidisce le mucose, l'escursione termica tra notte e giorno fa impazzire il loro barometro interno e soccombere le quasi inesistenti difese immunitarie.
E l'inverno... ah, l'inverno. Lì arriva la goduria. Perché l'inverno offre loro una tale varietà di patologie da far diventare la contrazione della malattia una vera e propria arte: l'opera inizia da un tenue raffreddore, con pennellate di mal di gola e cefalea, e sfuma presto nell'influenza, variegata di faringite, laringite, bronchite, tracheite e qualsivoglia infiammazione delle vie aeree che finisca in -ite. Accolgono la variazione del termometro da 36.6 a 37.2 con un sospiro quasi soddisfatto e una chiamata al notaio per vergare le loro ultime volontà, senza dimenticare la visita lampo al prete per l'estrema unzione, che non si sa mai. Per non parlare poi delle amate placche, dal nome così brusco e definitivo da mettere a tacere qualsiasi tentativo di minimizzazione da parte degli amici intenzionati a stanarli dal loro letto di dolore.
Ma l'ipocondria del malato immaginario non si ferma all'apparato respiratorio: un'area particolarmente cara a questi fanatici dell'aspirina infatti è quella digestiva.
Senza contare gastriti, coliti e mal di pancia vari, di cui soffrono in maniera cronica e ineluttabile, i soggetti in questione non mangiano la pizza perché gonfia, le bibite provocano rigurgiti, il caffè fa venire l'acido, la frutta a pasto rallenta la digestione, il pomodoro mi resta qui, alcolici poi non ne parliamo: ascoltando il loro infallibile vademecum sulla corretta alimentazione verrebbe da pensare che si nutrano di aria e germogli di bambù, e chissà, forse è proprio così ed è per questo che anche la loro fisicità ricorda quella dei panda.
Ma la forma rotondeggiante potrebbe anche essere dovuta al notevole campionario di vestiti che l'ipocondriaco medio si porta indosso: per far fronte infatti a tutte le evenienze meteorologiche, ha fatto del “vestire a cipolla” il suo mantra, tanto che ora della cipolla ha assunto anche la conformazione (ma per fortuna non l'odore). Si parte dall'immancabile cannottierina di flanella, per passare tutti gli strati intermedi di t-shirt, camicia, maglioncino, cardigan, maglione e piumino d'oca, avendo sempre a disposizione in macchina il sempiterno giaccone da sci, che hai visto mai, una nevicata fuori stagione...
E poi arriva l'immancabile momento. Quella incredibile, fortunata, utopistica combinazione astrale per cui la testa non gli fa male, la gola è a posto, i denti non danno problemi, la pancia tace soddisfatta e perfino la cervicale riposa placidamente.
Un sorriso speranzoso e incredulo ci sboccia sulle labbra come una margherita a primavera, e la fatidica domanda ci esce in un sospiro teso e felice.
“Allora stai bene?”
E la risposta sarà sempre la stessa.
“Beh, in realtà sembra tutto a posto ma... mmmh non mi sento mica bene, sai?”

sabato 9 febbraio 2013

Nonnine rampanti


Ormai le trovi ovunque, e sono sempre di più. Hanno detto basta all’uncinetto, al giardinaggio e ai loro amati gatti. Stanche di essere babysitter a costo zero, sarte a domicilio, cuoche della domenica, superano le barriere delle mura domestiche e dei circoli ricreativi: via le vestagliette a fiori e le ciabattine da casa, si torna ai fasti di tubino e tacco 12. 



Ebbene sì, parliamo proprio di loro, le nonnine rampanti. Donne non più giovanissime ma decise a riportare indietro l’orologio del tempo fino ai loro anni di gloria.
Intendiamoci, non che ci sia nulla di male. Personalmente, da una parte approvo il loro coraggio, il loro anticonformismo, la loro sprezzante caparbietà.
Dall'altra, diciamo che in alcuni casi i risultati non brillano particolarmente per buon gusto.
Che alla fine, a noi pulzelle, non è che la cosa tanga poi molto. Al limite gli unici svantaggi sono che ci potremmo ritrovare a prestare le nostre favolose décolleté alla nonna, pretendendo in cambio i suoi adorabili leggins di pelle. O assistere alla scena lievemente spiazzante di trovarcela nello stesso locale, a flirtare con il barista tuo coetaneo.
No, il vero problema, cari miei, è proprio per voi maschietti. Voi uomini conquistatori dal radar a 360°, galletti dalle penne sgargianti e l'occhio lungo pronto a individuare la prossima vittima di cotanto charme.
Immaginiamo la scena.
Lui, homo sapiens medio in cerca di una femmina con opportuna carrozzeria da trascinare nella propria caverna, possibilmente per i capelli.
Lei, tremendamente chic, dal capo adorno di lunghi capelli dorati ai piedi avvolti in raffinati stivali di camoscio. Magra, squisitamente magra, fasciata in pantaloni neri su cui cala l'invitante sipario di un elegante cappottino invernale. Un po' sobria, ma può fare al caso suo.
Basta poi una fuggevole occhiata allo smalto rosso fuoco per accendere la libido e – di conseguenza – spegnere il neurone. Il maschio cacciatore si getta all'assalto, raggiunge la preda e la paralizza con una brillante battuta sul tempo ballerino delle mezze stagioni.
E poi avviene il patatrac, il quarantotto, il crollo ormonale ai limiti storici.
Lei si volta.
E il suo viso sembra quello di un carlino, le rughe miseramente velate da strati di fondotinta, cipria e terra immancabilmente marrone.
Io me li immagino, i poveri ragazzi. Quante scuffie si devono prendere, quanti pensieri scabrosi sulle gambe snelle di queste nonnine rampanti.
Che poi il ricordo non va mica via, eh. Eh no. Una volta pensato, l'hai pensato. Solo che se nelle tue inconsapevoli fantasie lei era una sexissima signorina di primo pelo, ora ti ritrovi con una che è già indietro di un paio di generazioni.
E allora il ricordo va inevitabilmente alla tua, di nonna. La quieta vecchina che cucina tagliatelle la domenica – e magari si chiama anche Pina-, che ripara gli strappi su quei vestiti troppo stretti ma che hai comunque provato a indossare, che fa l'orlo praticamente a tutti i tuoi pantaloni.
E ti chiedi se forse quell'abitino di Prada andato smarrito nella sua veranda – che è di fatto un atelier – non abbia fatto tutt'altra fine. 

giovedì 7 febbraio 2013

Un normale venerdì in metro



Succede così, un venerdì come tanti.
Una mattina di quelle che ti senti felice ed energica che neanche uno spot della Mulino Bianco: scendi dal letto pimpante, consumi quasi con gioia quella fetta biscottata che è la tua colazione in regime post-feste natalizie, ti avvii per strada con il sole che sembra sorridere e gorgogliare come quello dei Teletubbies.

Passo baldanzoso, tracolla al fianco e biglietto metro in mano, ti dirigi serena verso l'entrata della metro.
E lì accade.
Non è la scritta "Tiburtina" che svetta sopra la tua testa, come il "lasciate ogni speranza" dell'inferno dantesco.
Non è neanche l'odore di alcol-urina-sporco e altre fragranze non meglio identificabili che colpisce le narici con la delicatezza di un panzer tedesco.
Perché mentre stai lì, un piede sul primo gradino e l'altro ancora nel mondo dei vivi, una soave voce metallica dà il suo annuncio di morte.
Si avvisano i signori viaggiatori che causa affollamento delle banchine al treno in direzione Laurentina seguirà un altro, più libero. 
Il sorriso vacilla, appassisce come un fiore di campo di fronte ad Attila.
Eppure dai, ti dici, non è la fine del mondo. Ci sarà da aspettare la metro successiva. A volte capita.
Ma dentro di te una vocina ti dice che no, non sarà come al solito.
Un vociare confuso riempie la tromba del sottopassaggio, striscia sulle pareti unte e arriva a te carico di minaccia incombente.
E poi ti fermi, semplicemente, perché una barriera umana impenetrabile si erge davanti a te, appena varcati i tornelli.
Inchiodi contro lo spilungone davanti, tendi il collo, cerchi di vedere.
Nulla.
Persone a perdita d'occhio.
Schiene e teste di ogni foggia e dimensione schierate come le 10.000 statue di terracotta dell'imperatore Qin Shi Huang.
Ma no, tu non ti perdi d'animo. Sei partita col piede giusto, e ok, questo è un piccolo inciampo, ma si può fare.
Stringi i denti. A gomiti alti come un marines che striscia, ti insinui fra la folla e non si sa come, contusa e confusa, arrivi a intravedere il binario proprio mentre la metro si avvicina.
Ecco, l'elettricità attraversa la folla come una freccia, si animano, cominciano a scalpitare.
Vedi lo sguardo dei passeggeri all'interno che cambia, iniziano a tremare, pensano di scendere alla successiva, ma ormai è troppo tardi.
Le porte di aprono, è un attimo di silenzio, di stasi, di respiro trattenuto.
E poi, al grido di "QUESTA E' SPARTAAAAAAAAAAAAA!!!" la folla si scaglia in avanti, invade il vagone, travolge gli illusi che pensavano di scendere... e tu, un po' trasportata dalla marea umana, un po' arrampicandoti su chi ti sta attorno, incredibile ma vero riesci a salire.
Con un calcio ti liberi dalla vecchietta abbarbicata al tuo piede, la scrolli via proprio mentre le porte si chiudono, ringhi contro chi solo si azzarda a dire "Non c'è posto, scendete".
Ce l'hai fatta, sei sopra.
Sì, stai mettendo a dura prova l'incomprimibilità della materia, ma sei sopra.
Ti torna il sorriso.
Poco importa del gomito conficcato tra le scapole, del borsone dietro le ginocchia che ti fa assumere la posizione della rana, del tizio davanti che praticamente può fare una planimetria completa delle tue tette spiaccicate addosso a lui, e che...
Che ti chiama per nome.
Perché non è un tizio.
"Ehi, ma sei tu".
No, rispondi dentro di te, impallidendo. Non sono io. Sono una sosia abbandonata da piccola che ha vissuto in Jamaica e si è data alla fabbricazione di cestini di paglia.
Ma no, tu sei proprio tu. E lui è proprio lui.
Il tuo ex.
Le sue ultime parole, crepa.
Sbocci in un sorriso talmente naturale che tra poco ti si spaccano le guance. "Ma che piacere..."
Della serie, speravo proprio di incontrarti dopo che mi hai lasciata facendomi soffrire come un cane, specialmente ora che ho l'aspetto di una profuga in quarantena e sono costretta a spiattellarti le tette sull'avambraccio.
Coincidenze che rallegrano la vita, insomma.
Lui sorride. "Ti vedo... benino, dai"
Ridillo e ti ficco un dito nell'occhio. Poi chissà come mi vedi.
"Oh, ti trovo bene anch'io. Vedo che la cura per la calvizie incipiente era tarocca come ti dicevo..." cinguetti, soave come una coltellata nello stomaco.
Tiè.
Inizia a chiacchierare del più e del meno, apparentemente noncurante che i vostri corpi aderiscano con effetto ventosa, da fare pop quando li stacchi.
Ma poi fa la fatidica domanda, e arriva il momento della rivalsa, della vendetta, della nemesi.
"Allora, come ti vanno le cose? Novità?"
Eccolo, il momento che hai pregustato da quando il suo brutto muso si è ripresentato a due centimetri dal tuo, insieme alla scoperta che la sua alitosi nel frattempo non è migliorata.
"Io?" Ti stiracchi e con fare casuale praticamente gli schiaffi la mano in faccia, rischiando di sfregiarlo con lo Swarovsky che troneggia fiero sull'anulare. Della serie, quando si ha classe. "Mah, niente di che".
Così come casualmente gli accenni che ora stai con un uomo molto più bello, elegante, gentile, facoltoso, importante e sessualmente esperto di lui, con tanto di enumerazione di conto in banca, proprietà varie, regali dal primo mese a oggi e già che ci sei anche la cronaca della vostra ultima vacanza.
Perché dicevo, quando si ha classe...
E prima che lui possa anche solo esprimere una qualsiasi considerazione sul fiume di parole che gli hai riversato addosso, esclami un "Oh, questa è la mia fermata, devo andare, ciao!" e ti concedi solo il tempo di dargli il tuo pacchetto di mentine, accompagnato dalla preghiera "usale", prima di scendere.
E mentre ti allontani soddisfatta tra la folla della fermata che ovviamente non era la tua, ti chiedi se non sia stato troppo ardito sventolare l'anello della nonna e citargli pari pari la trama della tua soap preferita.
Ma d'altra parte, a volte bisogna improvvisare.
Questa è la vita.
E questo è un normale venerdì in metro.





domenica 20 gennaio 2013

In una notte d'inverno



Che fatica.
Scanso una ciocca ribelle di capelli, ho la fronte madida di sudore, nonostante il freddo.
È notte, è inverno.
Ho sedici anni.
Sono incinta.

La mia mano scende istintiva, c'è poco da nascondere, anche con vestiti larghi.
È lì, è lì da nove mesi ormai.
È lì da quando non era che una notizia, un concetto senza alcun riscontro fisico.
È lì da quando ha iniziato a farsi strada dentro di me, creando la sua culla, il suo rifugio.
È lì da quando ho sentito la mia pancia gonfiarsi per fargli posto, attutire dolcemente i suoi movimenti, i suoi primi gesti in questo mondo, un'indole caparbia, indomita.
Un po' come sua mamma.
Mamma. Una parola così strana, riferita a me.
A me che non me lo aspettavo, a me che non avrei dovuto, non ora, non così.
E l'ho scontato, altroché.
L'universo intero si sta impegnando a farmi scontare questa pena, a farmi sentire abbandonata, a insinuare perfino in me il dubbio che non vada bene, che non ne valga la pena.
Che sia sbagliato.
Il biasimo silenzioso degli uomini, il disprezzo esplicito delle donne contro una ragazza senza marito che aspetta un figlio da chissà chi.
La mancanza di pietà nel bussare a una porta e sentirtela sbattere in faccia, dopo uno sguardo a te e al tuo ospite indesiderato.
Ho sedici anni, un bambino e un destino più grande di me.

La notte è fredda, il sudore scivola sulla mia pelle come brina su fili d'erba.
Mi sfugge un gemito, iniziano le fitte.
Ma va bene, è normale. Ogni tanto capita.
Cerco di respirare.
Dentro, fuori.
Dentro, fuori.
Sta' calma. Respira. Calma.
Ma stavolta è diverso. Stavolta le fitte non smettono, ma anzi, tornano regolarmente, a ondate, più forti ogni volta.
Il gemito diventa urlo, mi accascio, le mani al ventre che sembra voglia aprirmi in due.
Sta... sta arrivando.
Il bambino.
Non c'è più tempo.

Sento due braccia cingermi le spalle.
È lui.
Il mio uomo.
È più grande di me, eppure è l'unico che abbia capito, che abbia accettato.
Che mi abbia voluta accanto, anche se porto in grembo il figlio di un altro.
“Dobbiamo fermarci”.
No!
“Non... non può nascere qui” ansimo, ripiegata su me stessa.
“Non puoi neanche proseguire” mi risponde lui, risoluto.
Si china accanto a me, gli prendo il viso tra le mani, sentendo la sua barba sotto le dita, appoggio la mia fronte caldissima alla sua, più fresca.
Un'altra fitta, altre grida.
“D'accordo”.
Mi solleva, io chiudo gli occhi, stringo i pugni per resistere al dolore.
Dentro, fuori.
Respira.
Non so dove andremo. Siamo in aperta campagna, troppo avanti dall'ultimo paese, troppo indietro per il successivo.
È notte, è inverno.
E sto per partorire.

Mi sento adagiare su qualcosa di morbido, le parole del mio uomo un sussurro indistinto.
Mia mamma diceva sempre che ogni donna è sola, quando partorisce, anche se circondata da persone.
Qui non ci sono persone.
Eppure non mi sento sola.
Alzo gli occhi al cielo, alle poche stelle che si intravedono attraverso il soffitto di paglia del nostro rifugio.
Non sono sola.
Respira.
Dentro, fuori.
Dolore.
Respira.
Dolore.
Dentro, fuori.
Fuori.
Fuori...

L'ho appena scoperto, il suono più bello del mondo.
Un pianto.
Un pianto che racchiude paura, scoperta, passaggio e una miriade di sensazioni... un pianto che racchiude la vita.
La sua, la mia.
Mio figlio.
Me lo porto al petto, lo avvolgo nei vestiti, nel mio affetto, nel mio cuore.
Mio figlio.
Yehoshùa .